resta quel che resta
Editore: Edizioni Piemme
Anno: 2022
Pagine: 464
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RESTA QUEL CHE RESTA

Bolzano, anni Venti. Il Sudtirolo è italiano dalla fine della Grande guerra, ma solo sulla carta: la popolazione tedesca è la stragrande maggioranza.
Il regime fascista intraprende una poderosa campagna di italianizzazione: spinge operai e contadini a cercar fortuna al Nord, nelle terre appena conquistate, promettendo dignità e benessere. Ad accomunare le famiglie che si trasferiscono (i Marchetti, vicentini, spregiudicatamente fascisti; i Ceccarini, maremmani, guasconi e ben più diffidenti nei confronti del regime) è il desiderio di emergere, di farsi finalmente strada in un mondo che dovrebbe appartenergli e che invece li accoglie con ostilità.
Sono pochi, tra la popolazione tedesca, a credere nella pacifica convivenza, forse perfino nell’integrazione: tra questi Erwin Egger, un mite commerciante gravato dal fardello di un figlio affetto da una misteriosa infermità mentale. Gli altri, primo tra tutti il medico Alfred Gasser, nascondono dietro una facciata di moderazione una feroce smania di rivalsa contro l’oppressione fascista. È in questa polveriera che accadono i fatti che legheranno indissolubilmente le famiglie Gasser, Marchetti, Ceccarini, Egger e Ranieri. È l’inizio del 1940: la guerra è iniziata ma non per l’Italia.
Le figlie neonate di Alfred Gasser, gemelle, scompaiono nel nulla. A rapirle, e a ucciderne una, è stato l’italiano Sante Marchetti, giardiniere per la famiglia Egger. Dell’altra, salvata da Max Egger, il ragazzo affetto da una malattia mentale senza nome, nessuno saprà nulla per anni: perché nel frattempo la guerra ha travolto le esistenze di tutti. Sante riesce a farla franca dopo aver nascosto il corpo con l’aiuto della famiglia. Ogni ricerca è vana, lentamente le gemelle vengono dimenticate.
Solo dopo la guerra, quando la popolazione tedesca metterà in pratica i progetti di rivalsa da tempo pianificati, mentre nuove ondate di immigrazione operaia porteranno migliaia di italiani in Sudtirolo, il passato tornerà a galla, dilaniando famiglie ed esistenze, decretando colpevoli, sconfitti e vincitori.
A quattro anni Max manifestava evidenti sintomi di stranez­za: nessuno, in casa, aveva trovato un termine più preciso per descrivere l’abisso che separava il piccolo dalla normali­tà, abisso che mese dopo mese si faceva più profondo. E da quasi un anno, ormai, suo padre Erwin dava la colpa all’in­cidente del bue. Era successo a Seis, a pochi chilometri dalla città, durante le vacanze estive che i bambini trascorrevano al maso dei nonni. Il bue era assicurato a un nocciolo con un solo giro di corda e Max lo colpiva per gioco con un ramo: forse per imitare un vetturino sulla sua carrozza, o per chissà quale altro motivo. L’animale aveva finito per ribellarsi: un solo calcio, non particolarmente violento, sufficiente però a scaraventare il piccolo sul prato e a fargli sbattere la testa sul terreno. La bestia, su ordine di Erwin, era stata abbattuta; Max si era ripreso in fretta. Ma da quel momento si era de­ciso di far coincidere l’inizio dei problemi con l’episodio del bue.
“Una terra doppia e ambigua, che aveva accolto con la stessa sete il sangue degli italiani e dei tedeschi, indifferentemente, e se n’era impastata”.

Katia Tenti